Il declino di Federico II (ovvero anche i ricchi piangono) [3° ed ultima puntata]

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Vi ho fatto aspettare, lo so, ma nell’ultimo mese mi è successa una cosa strana che mi ha costretto a trascurare il blog. Una cosa che di solito a un medievalista non succede. Ho trovato lavoro. Tranquilli, un part-time a tempo determinatissimo, ché non vorremmo che l’odore dei soldi e della stabilità ci desse alla testa. Ma accantoniamo i mali miei e di questo secolo e torniamo piuttosto ai mali del secolo XIII e, in particolare, a quelli del nostro caro Federico II, a cui gli ultimi anni di regno riserveranno una sfiga dietro l’altra.

Nella scorsa puntata eravamo arrivati al 1229, quando il sovrano tornò vittorioso dalla “Crociata”, se così si può chiamare l’impresa con cui si riappropriò di Gerusalemme a suon di cortesie, complimenti e accordi diplomatici col Sultano. Papa Gregorio IX, seppur per niente soddisfatto della condotta pacifista di Federico, non poté che ritirare a denti stretti la scomunica e seppellire, almeno provvisoriamente, l’ascia di guerra.

Tuttavia Federico non fece in tempo a stappare lo spumante per festeggiare la tregua col Papa che immediatamente nuovi problemi si affacciarono all’orizzonte. Le preoccupazioni del sovrano stavolta erano tutte di natura familiare e prendevano forma nella persona del figlio Enrico, nato dal matrimonio con Costanza d’Aragona. Già, perché se la saggezza popolare ci insegna che per ogni padre i figli so’ piezz’e core, nel caso di Federico il suo primogenito si configurava più che altro come nu piezz’e merd’.

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Destinato fin da piccolissimo al trono di Germania, Enrico, a soli 9 anni, era stato allontanato da casa ed educato presso gli ambienti dell’aristocrazia tedesca, privato del calore della famiglia e schiacciato dagli incarichi di Stato. Nel tempo aveva così maturato nei confronti di Federico un complesso di Edipo di proporzioni elefantesche: e come dargli torto? Federico era stato una figura paterna assente e distante dal punto di vista affettivo, ma quanto mai presente e castrante a livello politico. Il povero giovanotto non poteva prendere una scelta che fosse una di testa sua: «Coi principi tedeschi fai così, e non cosà» raccomandava l’Imperatore. «Sposa Margherita di Babenberg» ordinava. «Non fare di testa tua, obbedisci a tuo padre» intimava. Insomma, un’angoscia perenne.

Il conflitto, com’era prevedibile, non tardò ad esplodere. Enrico iniziò a ordire un complotto contro il padre, affiancandosi ad alcuni nobili tedeschi ribelli; scoperto con le mani nella marmellata, nel 1232 venne convocato ad Aquileia, richiamato all’ordine e rispedito in Germania con il consiglio di non riprovarci mai più. Ma non passarono neanche due anni che il rampollo fece di peggio: stipulò, ai danni del padre, un accordo con i Comuni della Lombardia, che gli erano nemicissimi. A questo punto a Federico cascarono veramente le braccia: «Ma allora lo vedi che i ceffoni tu me li tiri fuori dalle mani, figlio degenere che non sei altro!» strillò esasperato.

In effetti Enrico era uno di quegli scugnizzi incorreggibili con cui non c’è strategia educativa che tenga: provi a levargli la play station, gli mandi Tata Lucia, lo picchi con lo zoccolo di legno…niente, sempre stronzo rimane. A sua parziale giustificazione c’è da dire che essere figlio d’arte di un padre figo, eccezionale e inarrivabile come Federico II non doveva essere facile per nessuno. Figurarsi per uno come lui, col dramma dell’eterno adolescente complessato e per di più, a quanto risulta da indagini moderne, pure zoppo e lebbroso!

Per quanto Federico tentasse di fare il padre aperto e moderno c’era poco da fare, la condotta di Enrico costituiva un alto tradimento e richiedeva un castigo esemplare: il giovanotto fu deposto dal trono di Germania e condannato a morte. Tuttavia poco dopo il sovrano ci ripensò; non aveva il cuore di tener fede a una punizione tanto dura e si limitò a commutare la pena in un più morbido ergastolo da trascorrere nelle celle di qualche fortezza siciliana. Fu proprio nel 1242, durante il trasferimento da una prigione all’altra, che questa storia trovò il suo triste epilogo; pare infatti che, sfuggendo alla sorveglianza delle guardie, Enrico spronò il suo cavallo e si gettò volontariamente da un dirupo, ponendo fine alla sua tormentata parabola esistenziale da Dawson Leery medievale. A Federico non restò che piangere il figlio, a cui nonostante tutto aveva voluto bene: «Non siamo i primi e non saremo gli ultimi a sopportare i danni delle trasgressioni dei figli e ciò nonostante a piangere dopo i loro funerali», scriverà, a commento dell’amara vicenda. Cuore di babbo <3

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Disegno di Enzo Maria Carbonari, del libro “La montagna incantata” .

Tragicamente conclusasi la parentesi dello scontro col figlio, l’Imperatore si gettò di nuovo a capofitto nella politica, alle prese con quello che era uno dei suoi grattacapi storici: il tentativo di unificare la Penisola e il rapporto con i Comuni del Nord Italia.

Ai Comuni il sovrano non stava troppo simpatico: non solo perché era il nipote di Federico Barbarossa, che per loro era stato lo spaca marun per eccellenza, ma anche perché pareva avere la stessa attitudine del nonno a minacciare la loro autonomia politica. Tra il 1236 e il 1239 l’Imperatore condusse diverse campagne militari, con lo scopo di piegare città come Vicenza, Milano e Brescia sotto il dominio imperiale; le conseguenze furono la restaurazione della Lega Lombarda (a proposito, uno di questi giorni vi spiego anche cosa ha –o non ha – a che fare questa Lega con il partito di Salvini, Pontida e il simbolo del Carroccio) e il riacutizzarsi del conflitto col Papa.
Come abbiamo già spiegato, al piccolo Stato Pontificio non conveniva proprio che la Penisola fosse unificata in una sola, grande realtà statale, meno che mai per mano di uno che, in qualità di imperatore, vantava tra i suoi possedimenti tutta l’Europa centrale: il potere temporale della Chiesa sarebbe rimasto stritolato da un simile colosso.

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Enzo e Adelasia di Torres

Gregorio IX dunque approfittò dello scontro di Federico con i Comuni per riaprire le ostilità, utilizzando come pretesto il più dimenticato e ignorato angolo d’Europa: LA SARDEGNA. L’isola infatti era stata promessa in successione al Pontefice dalla Giudicessa Adelasia di Torres; nonostante ciò Federico II, nel 1239, aveva ben visto di far sposare il figlio Enzo con Adelasia, estendendo così la propria influenza anche sui territori d’oltremare. Probabilmente la sovrana, nell’accettare il matrimonio, aveva sperato che il Papa ormai novantaquattrenne si fosse dimenticato dell’accordo di un tempo. Purtroppo però Gregorio poteva aver perso tutti i denti e sviluppato la cataratta, ma la memoria, soprattutto per queste cose, gli funzionava ancora benissimo. Un’altra cosa che continuava a funzionargli bene, inoltre, era il dono della scomunica, tanto che ne scagliò un’altra contro Federico e indisse un concilio volto a favorire la sua deposizione. Insomma, era guerra aperta.

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E adesso però concedetemi una piccola parentesi. Probabilmente la mia isoletta a trattamenti simili ha fatto il callo, ma a me la cosa onestamente fa scompisciare dalle risate. Per secoli ci avete abituati ad essere in coda alla lista delle priorità dei potenti, a sentirci al mondo solu ca b’at locu (solo perchè c’è posto), solo perché là, nel mezzo del Tirreno, c’era uno spazio vuoto che al Creatore sembrava carino occupare con qualche ettaro di macchia mediterranea e montagne… E poi improvvisamente vi ricordate di noi e diventiamo tanto indispensabili da convincere Papi e Imperatori ad armare eserciti e far scorrere il sangue dei loro sudditi? Poco importa poi che a mala pena questi Papi e Imperatori sappiano dove la Sardegna sia collocata nelle mappe e che nella maggior parte dei casi non vi abbiano mai messo piede (un po’ come Enzo, che ci resterà giusto il tempo della cerimonia di nozze, per poi tornarsene nella Penisola); se a un certo punto l’isola è utile ai loro interessi, allora è loro.

Comunque, rivendicazioni patriottiche a parte, torniamo a noi. Il Papa scomunicò Federico e, nel 1241, organizzò a Roma un concilio per deporlo. Il sovrano però rispose con un inaspettato colpo di coda e azzardò una mossa che nessun imperatore aveva mai tentato prima: bloccò le vie di terra e intercettò le navi che da Francia e Inghilterra portavano i cardinali a Roma, per impedire lo svolgimento del concilio. Di quei cardinali alcuni verranno presi in ostaggio, molti uccisi. Poco dopo questi fatti, forse per il crepacuore o forse per la vecchiaia (aveva 96 anni), Gregorio IX morì.

Nonostante la morte del suo nemico storico, le cose per Federico continuarono a peggiorare. Le monarchie europee, che avevano interpretato come un atto di inaudita barbarie il gesto compiuto nei confronti dei cardinali, avevano preso le distanze da lui e lo guardavano con diffidenza.

Anche la campagna militare nel Nord Italia contro i Comuni non dava i sfrutti sperati, fino a culminare nell’insuccesso della battaglia di Parma del 1248, che mise definitivamente fine al sogno dell’Imperatore di riunire tutti i territori italiani in un solo regno.

Inoltre il cuore del sovrano era destinato a vedersi inflitte nuove ferite. Alla morte in battaglia del figlio Riccardo (1249) e alla cattura del figlio Enzo, che morirà molti anni dopo in mano ai nemici, si aggiungerà anche il tradimento di uno dei suoi più cari amici e collaboratori, Pier delle Vigne. Scommetto che il nome fa riaffiorare in voi delle reminiscenze liceali, vero? E infatti ricorderete che, nel XIII canto dell’Inferno, Dante ad un certo punto spezza il ramoscello di un arbusto e quello inizia a sanguinare e a parlare. Ebbene, non è il girone infernale dedicato a tutti quelli che, pur in totale assenza di pollice verde, si ostinano a coltivare e sterminare centinaia di piante da vaso. No, siamo piuttosto nel girone dei suicidi e l’alberello parlante è proprio Pier delle Vigne che, accusato (forse ingiustamente) di aver ordito una congiura contro il sovrano, si era tolto la vita.

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La selva dei suicidi, Illustrazioni della Divina Commedia di Gustave Doré

Siamo arrivati all’anno 1250 e la nostra storia volge al termine. Federico è ormai vecchio, fiaccato dalle delusioni e amareggiato dal fallimento del progetto politico tanto accarezzato. L’Italia non sarà mai unitail Papato non cesserà di essere corrotto e di pensare solo alla conservazione dei propri domini temporali, appoggiando di volta in volta l’uno o l’altro signore in guerre senza fine.

Lo Stupor mundi ormai sembra un ometto molto piccolo, fa tremare in pochi. E se il suo ingresso nel mondo era stato plateale e degno di una star, non posso dire lo stesso della sua uscita di scena, che porca miseria… non vorrei neanche scriverla, perché Federico è un po’ il mio idolo, lo considero uno dei regnanti più capaci che l’Occidente abbia mai conosciuto e avrebbe meritato una fine migliore. Però fanculo, tanto a un certo punto lo devo dire. Muore a 56 anni per un attacco di diarrea, ecco. Contenti?

Non c’è giustizia in questo mondo. Addio Fede.

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La salma di Federico II raffigurata in un disegno nel 1781, quando fu ufficialmente aperto il sarcofago.

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