Abelardo ed Eloisa, ovvero l’amore rende scemi (per non parlar del sesso) [1° puntata]

L’amore è una forza democratica, ossia rincretinisce tutti. Poveri e ricchi, zotici ed eruditi, scorfani e bellocci: quando bussa alla porta non c’è altra scelta che rassegnarsi, appendere al chiodo l’intelletto e abbandonarsi alla furia rincretinente dell’amore. Ma pure se questo significa sacrificare ciò che un uomo ha di più caro? Yes, of course. E pure se sei il più acuto pensatore del tuo secolo e mezza Europa pende dalle tue labbra? Pure in quel caso. Pure se sei Pietro Abelardo, insomma.

Pietro Abelardo fu probabilmente il più grande filosofo e il più grande sfigato del XII secolo. La vita gli aveva riservato due talenti: l’attitudine al ragionamento brillante e la capacità di stare sul cazzo a tutti in pochissimi minuti. Entrambi li coltivava con commovente dedizione. La sua parabola esistenziale è registrata nell’autobiografia intitolata “Historia calamitatum mearum” (“Storia delle mie disgrazie”), ma vi anticipo già che, ad onor del vero, molte di queste disgrazie Abelardo se le era andate a cercare proprio col lanternino. Ma mettetevi comodi, ché inizia il racconto.

C’era una volta a Pallet, cittadina della Bretagna, un piccolo nobile che aveva tre figli. Il più grande si chiamava Pietro, era nato nel 1079 e, per diritto di primogenitura, era destinato ad ereditare i possessi paterni ed esercitare la carriera militare. Al fanciullo, però, questo destino non aggradava e, fin da subito, non fece mistero di preferire la penna alla spada: voleva studiare e diventare un grande filosofo.

Per seguire il suo sogno abbandonò dunque la casa paterna, iniziò a girare per le scuole di Francia e diventò chierico. Giusto per intenderci: nel Medioevo il chierico era una specie di frate laico che, in quanto tale, poteva condurre una vita secolare fuori dal convento, ma non si poteva sposare.

chierico

La prima tappa del giovane Pietro fu la scuola di Lochmenac, dove insegnava Roscellino, massimo esponente della corrente filosofica del Nominalismo. Per non tediarvi troppo con le dispute filosofiche dell’epoca, vi dirò soltanto che per Roscellino i concetti universali come quello di “umanità” non avevano nessuna corrispondenza nel reale, erano solo fuffa, parole vuote, fiato che usciva dalla bocca. «L’umanità in senso generale non esiste» professava «esistono solo i singoli uomini in quanto tali» . 

Abelardo, appena varcata la soglia dell’aula, al sentire questa teoria, storse immediatamente il naso e, senza preoccuparsi di risultare un incorreggibile cagacazzo, iniziò a contestare il maestro: «Ah bene. Quindi voi state dicendo che anche la Trinità, in quanto concetto universale, non esiste, ma esistono solo il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo, come realtà separate. Pertanto non ci sarebbe un unico Dio, ma tre. Ne deduco che siete un eretico!». Ben presto la situazione precipitò: a causa delle ripetute accuse di Abelardo, Roscellino si trovò gli occhi di tutto il mondo cattolico puntati addosso e, per sfuggire alla condanna per eresia, fu costretto a rifugiarsi in Inghilterra. Pietro Abelardo si era appena fatto il primo nemico.

Rovinata la vita al primo insegnante, il nostro eroe si mise in viaggio verso Parigi, intenzionato a frequentare la più prestigiosa scuola di Francia, quella di Notre Dame, che aveva come punta di diamante il filosofo Guglielmo di Champeaux. Pure lì, aridaje, si ricominciò con l’annosa disputa sugli universali. Guglielmo stava su posizioni opposte, rispetto a Roscellino: per lui gli universali esistevano eccome, anzi, erano i mattoni costitutivi della realtà! Le cose singolari invece ne erano semplice emanazione. Ma ovviamente a Pietro Abelardo, che a colazione mangiava pane e polemica, neanche questa teoria andava bene. Iniziò a contestare il maestro ed accapigliarsi coi compagni, finché non riuscì a stare antipatico a tutti, pure al bidello. L’atmosfera ormai si era fatta irrespirabile.

«Bene, visto che pure qui a Parigi vi siete rivelati dei caproni, incapaci di insegnarmi alcunché, sapete che vi dico? Mi fondo una scuola mia e ve lo faccio vedere io come si studia la filosofia!» esclamò Pietro, gonfiando il petto, tutto tronfio. E così fece: lasciò Parigi e gettò le basi del proprio istituto, prima a Melun e poi a Corbeil. Il nostro eroe poteva essere indisponente e scorbutico, questo sì, ma era anche brillante come nessun altro; ben presto, attirati dalla sua sapienza, iniziarono a giungere studenti da tutta la Francia. Come afferma lui stesso, senza traccia di modestia, nella sua autobiografia: «La mia reputazione di insegnante si diffuse tanto da offuscare completamente quella di chiunque altro, persino di Guglielmo di Champeaux». Vabbé, sì Pietro, l’abbiamo capito che ti senti un figo.

Nel frattempo gli anni passavano e la fama di Pietro cresceva a vista d’occhio. Dalla sua scuola di provincia non mancava di polemizzare con i grandi maestri parigini, uscendo sempre vittorioso da ogni disputa. Acuto, provocatorio, ribelle: era l’idolo dei giovani studenti. E non solo degli studenti maschi. A Parigi, infatti, anche se rare, vi erano anche delle ragazze appassionate di filosofia. Una di queste era Eloisa.

eloisa

Eloisa, Eloisa… senti il nome, così melodioso e flautato, e già te ne innamori. Eloisa era una povera orfana, che viveva a Notre Dame, affidata alle cure dello zio Fulberto, canonico della Cattedrale. Era nota per essere bellissima e per avere una cultura di inusuale profondità che abbracciava tutto lo scibile umano, dall’aritmetica alla retorica.

Probabilmente, se Eloisa fosse stata una sedicenne del 2019, in cameretta avrebbe avuto affisso il poster di Justin Bieber; ma Eloisa era una sedicenne del 1110, il suo principale interesse era la filosofia e il suo unico idolo rispondeva al nome di Pietro Abelardo. E, come tutti gli idoli, ovviamente, Pietro era un personaggio lontano e irraggiungibile, di cui la ragazza conosceva le gesta e le dottrine, ma che non aveva mai visto dal vivo.

Siccome però ogni tanto anche i sogni delle fanciulle si avverano, a un certo punto Pietro, stanco di esercitare la sua attività in scuole secondarie, decise di far ritorno nelle prestigiose scuole di Parigi. Pertanto, superando le invidie e gli ostacoli posti dai non pochi nemici che negli anni era riuscito a crearsi, nel 1115 poté accomodarsi sulla cattedra di filosofia della scuola di Notre Dame, la stessa che Eloisa non solo frequentava, ma in cui praticamente viveva, essendo la nipote del canonico. E non è tutto: siccome a certe ragazze la Fata Madrina non nega l’esaudirsi di nessun desiderio, Eloisa non solo si ritrovò l’idolo dei suoi sogni come professore, ma in breve tempo pure come coinquilino dato che, con la scusa di essere più vicino alla scuola, Pietro andò a vivere a pensione proprio presso lo zio della fanciulla.

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Non so voi, ma se Leonardo di Caprio, mito della mia pre-adolescenza, fosse venuto a vivere a casa mia, io avrei fatto carte false per passare con lui ogni singolo secondo. E la stessa cosa fece Eloisa: con il beneplacito dello zio Fulberto, a cui stava molto a cuore la sua istruzione, chiese ad Abelardo di darle lezioni private; il filosofo, un po’ per amor di divulgazione, un po’ perché abbagliato dagli occhi conturbanti della fanciulla, accettò.

All’epoca lui aveva circa 35 anni e, per sua stessa ammissione, nessuna esperienza con il genere femminile; in compenso però, a prestar fede a ciò che Eloisa, molti anni dopo, ricordava in una sua lettera, non doveva esser privo di un certo fascino: «Quale donna sposata, quale vergine non ti desiderava quando eri assente e non ardeva quando eri presente? […] Quale dote dell’animo o del corpo non rendeva attraente la tua giovinezza?»

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Con simili premesse Pietro ed Eloisa si arrischiarono sul terreno scivoloso della reciproca conoscenza. Ogni sera, dopo cena, nello studio di Fulberto, i due si ritrovavano occhi negli occhi, a leggere trattati e discutere di logica, dialettica e teologia. Com’era facile prevedere però, i discorsi si spostarono presto dal trascendentale all’immanente e dall’immanente al carnale. Ricorda Abelardo nella sua autobiografia: «Con il pretesto dello studio ci lasciammo trascinare dall’amore […] I baci erano più numerosi che le spiegazioni e le mani correvano più facilmente ai seni che ai libri».

Il guaio è che innamorarsi, soprattutto per chi, come quei due, non aveva mai conosciuto la passione, è una cosa facile, che non necessita di alcun esercizio. Fu così che i due più acuti intelletti di Francia dovettero ben presto arrendersi alla constatazione che l’amore non è studio, non è volontà, e che si può amare in molti modi, ma mai in modo intelligente. Totalmente rincretiniti, si abbandonarono a una passione che non ammetteva vergogne o pudori: «Se in amore si è mai potuto inventare qualcosa di nuovo, noi l’abbiamo inventato. Quanto più eravamo inesperti di quei giochi d’amore, tanto più insistevamo nel procurarci piacere, senza mai stancarci», scrisse anni dopo Abelardo.

E se è vero che la saggezza consiste nell’anticipazione delle conseguenze, Pietro ed Eloisa di quella saggezza si ritrovarono privi nel momento stesso in cui le mani dell’uno agguantarono la carne calda dell’altro sotto i vestiti. Eloisa, dopo un certo tempo, si rese conto di essere incinta. La notizia lasciò gli amanti impreparati e increduli, ancora ignari degli effetti devastanti che la nascita di un figlio avrebbe avuto sulla loro situazione, già così precaria.

Ma questi effetti non ve li racconto oggi, li lascio alla prossima puntata. Per farvi venire l’acquolina in bocca, vi dico solo che il prosieguo della storia costerà ad Eloisa molte lacrime amare e ad Abelardo il sacrificio di quanto un uomo ha di più caro. E se ironicamente il vostro pensiero è andato ai gioielli di famiglia, ai santissimi batacchi, insomma, agli zebedei, sappiate che non siete stati maliziosi, avete pensato proprio bene. Ma qui mi taccio, per oggi. Alla prossima puntata <3

4 comments

  1. Abelardo ed Eloisa (e l’epistolario tra i due) li studiai per un esame. Ricordo che anch’io pensai che tante volte Abelardo se l’era cercata la sfiga. Poi, dopo essere stato “decazzitato”, lui era diventato un piagnone.. ( insomma, si era “scazzato”)

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